L’altro giorno ho casualmente scoperto un elegante opuscolo in pergamena che si riferisce alle «Costituzioni dell’Accademia del Casino dei Nobili della Città di Volterra» «benignamente» approvate ed ordinatane l’osservanza da Sua Maestà Lodovico Primo, infante di Spagna re dell’Etruria, con «Veneratissimo Rescritto» del 24 marzo 1803.
In ogni tempo, in seno a qualsiasi organizzazione sociale, si è sempre formato un circolo ristretto di persone, con una spiccata tendenza all’isolazionismo di stile oligarchico e borghese, il quale ha comunque goduto, rispetto alle altri classi sociali, di speciali privilegi, sian questi economici o politici. Questo circolo di persone ha comunque costituito quell’élite composta da nobili, borghesi e benestanti, che in conseguenza della loro particolare condizione, sono stati sempre chiamati «patrizi». Tuttavia la «nobiltà», nella storia, ha avuto costituzioni e prerogative non sempre identiche, ma comunque basate sulla ricchezza fondiaria. Lo stato di «nobile» o di «patrizio», se ha mantenuto il concetto di «capitale e ricchezza» immutato nel tempo, ha avuto anche mutevoli aspetti; infatti, inizialmente, apparteneva alla «nobiltà» chi possedeva vaste estensioni di terreno, o vari altri beni immobili e un gran numero di capi di bestiame. Quando poi la società umana si elette una strutturazione più evoluta cominciarono a nascere le «classi sociali» – caratteristica intrinseca nel progresso o delle ambizioni e del benessere – e, prima fra tutte, sorse la distinzione «patrizi – plebei», comunque «ricchi – poveri», «benestanti – popolo»,
A tal riguardo nella storia di Roma, troviamo il primo tra i più considerevoli esempi di interclassismo. «Patrizi» erano in origine i membri delle primitive trenta curie: avevano la somma dei poteri, ma in seguito, in conseguenza delle lotte sociali, l’accesso alle cariche divenne apparentemente, un poco per volta, libero a tutti. Nacque così un altro tipo di borghesia, composta da quelle poche famiglie plebee, le quali si imposero, al governo, non tanto per ragioni economiche, quanto politiche. Ma in generale il «patrizio» romano si distingueva per il valore e la virtù della stirpe. Questa, per lo meno, era la motivazione pubblica.
Cominciò dunque una identificazione classista che perdurò nel tempo, nella quale, di fatto, ci si riconosce ancora, come duemila anni fa, perché «potere» significò e significa tuttora «ricchezza» e, come allora, l’influenza sociale determina il predominio di natura politica che, oggi, si sostituisce, anche se in modo meno vistoso e con diversi programmi ed attori, all’élite di quei tempi.
Nel medioevo il sovrapporsi dell’elemento germanico nei confronti di quello romano, creò ancora una nuova «nobiltà», la quale aveva in comune, con quella romana, la partecipazione alla vita dello «stato» e l’esercizio delle pubbliche cariche; inoltre, con l’affermarsi del sistema feudale, il titolo e il grado divennero ereditari. Si scoprì così un perfetto sistema di «conservazione del potere» che condizionò e consolidò, al tempo stesso, sia le ambizioni e la personalità dei potenti, sia la fede patriottica e nazionale delle masse.
Nella gerarchia di questo sistema, al di sopra stavano i marchesi e i conti: coloro che ottenevano il riconoscimento del proprio potere direttamente dal re e, con meno autorità di essi, i baroni; al di sotto i capitani, i visconti e i signori delle campagne, la cui autorità era condizionata da quella del marchese o del conte, dal quale ricevevano l’investitura. Tutti questi «nobili» o «patrizi», esercitarono il loro potere non solo sul governo della comunità e delle cose, ma anche sulle persone che erano a loro legate da un vincolo di sudditanza. Questo, pertanto, è il carattere distintivo della «nobiltà feudale» che ebbe una profonda influenza storica, perché proprio in questo periodo, a causa di questa nuova mentalità gerarchica, si ebbe la nascita del capitalismo politico, tanto forte da condizionare il volere e l’operato del sovrano supremo, del re per volontà divina.
Il decadere del feudo non portò con se il completo decadimento di questa «nobiltà», che perse in potenza e in dignità, ma, pur essendo privata dei poteri giurisdizionali, conservò il grado e il titolo. I nobili si affollarono allora nelle città ed alle corti dei principe, in cerca di altra fortuna, concretatasi poi in quella nuova realtà sociale e politica che prese nome di «comune». Ora, quindi, la «nobiltà» cittadina seguì le vicende e gli interessi della propria zona, organizzandosi in istituzioni olìgarchiche, discendenti dal vecchio gerarchismo degli antichi visconti. Ma un nuovo potere stava delineandosi, quello delle forze mercantili ed artigiane che imposero la loro politica con il solido ricatto economico della ricchezza: lo scontro politico fu inevitabile e la vecchia borghesia uscì, tranne che in pochi casi, spoglia dei suoi privilegi.
Ma come sempre, la forza borghese ha il suo ciclo di sostituzione e la nuova «nobiltà» artigiana e mercantile si vide soppiantata dalla nascente istituzione di stampo feudale e di tipico volere ecclesiastico che fu la «signoria». Questa nuova realtà sociale e politica riuscì a colmare i vuoti, lasciati dall’ormai sorpassata classe dirigente, elevando alla «nobiltà i favoriti di corte e i figli bastardi di principi, dando titoli senza cariche, feudi senza terre, creando così un’altra «nobiltà» non militante, ma di «piuma» o di «penna» o di «toga», concessa a mercanti arricchiti, a magistrati, ad avvocati, ad artisti. Nacque dunque il potere intellettualistico, dei pensatori, del filosofi, che come sempre, da allora più che mai, condizionò il volere della «nobiltà», delle borghesie nascenti e, quindi, di tutta la classe dirigente.
Successivamente il dominio spagnolo accentuò questo stato di cose, distribuendo titoli senza parsimonia e vendendo carte di nobiltà. Questo immotivato potere si perpetuò nel tempo fino alla rivoluzione francese, che cercò di abolire tutti i privilegi di casta, ma, con la morte di Robespierre, la borghesia ritornò al potere. Infatti Napoleone I fondò una nuova «nobiltà» per meriti civili e onori militari. La Restaurazione tentò di risuscitare gli antichi poteri, ma non riuscì che a riavere vecchi titoli, vuoti dei privilegi di sempre, ed oggi l’antica «nobiltà» non sussiste che come distinzione ereditaria, dato che nel tempo ha perso sempre più potere nei confronti della nuova borghesia capitalistica nascente.
Il diritto nobiliare, ossia la legge che stabilì i caratteri e le prerogative della «nobiltà», i modi di acquisto o di trasmissione dei titoli, fu dapprima connesso al diritto feudale, al quale restò confuso fino all’abolizione del feudalesimo. Queste norme erano formate da consuetudini, da tradizioni locali e, dopo il 17° secolo, dalle leggi dei principi, che la giurisprudenza elaborò.
In Italia questa complicata materia venne regolata dal regio decreto 21 gennaio 1929, con cui fu approvato lo «stato nobiliare italiano». Oggi, però, la nuova Costituzione non riconosce più i titoli nobiliari, permettendo solo che quelli esistenti prima del 28 ottobre 1922 valgano come parte del nome.
La nobiltà volterrana era desiderosa di dare al «Casino della sua Patria» un nuovo e costante «stabilimento» non tanto perché ne risultasse il maggior decoro e splendore, quanto al fine d’indurre una permanente regolarità per l’amministrazione politica ed economica dello stesso. E con gli individuali consensi, venne nella determinazione dì erigere un’accademia che, oltre tutte le leggi, i motupropri, gli ordini e le notificazioni emanate dai reali sovrani della Toscana e della Magistratura, che vegliavano sopra i regolamenti della nobiltà e sistema dei casini, servisse di regola costante, in ciò che dalle suddette disposizioni non era previsto. Pertanto, oltre alle citate «costituzioni» per l’Accademia del Casino dei Nobili della Città di Volterra, fu fissato anche un regolamento interno che contenesse i più minuti dettagli relativi alla pulizia, decoro, contegno e buon servizio della «nobiltà» che interveniva al Casino, nonché indicasse le ore nelle quali lo stesso doveva stare aperto e stabilisse una tariffa per le tasse da pagarsi da chi si divertiva al gioco.
Il Casino non aveva un tassativo numero di appartenenti e ai nobili, che dettero origine a tali «costituzioni», fu concesso il titolo di «accademici fondatori», mentre i nuovi nobili venivano ammessi al Casino purché, nello «squittinio» dei componenti l’Accademia, ottenessero i due terzi di voti favorevoli.
Gli accademici fondatori avevano Il «diritto» di nominarsi «in qualsivoglia tempo», il loro successore, purché questi fosse nobile, suddito toscano e in possesso delle prerogative annesse alla detta qualità. Se l’accademico fosse deceduto senza aver nominato il successore, subentrava nel suo posto l’erede maschio primogenito e, in sua mancanza, il «maggiore degli Agnati maschi» più prossimo fino al terzo grado, sempre ché godesse dei «dritti» di nobiltà.
L’accademico nuovo ammesso per qualunque titolo, sia di elezione o di successione, doveva pagare una tassa a titolo di «entratura» nella somma di due zecchini fiorentini. Se poi fosse entrato nell’accademia per titolo di mera elezione, oltre alla tassa, doveva pagare una somma che fosse in proporzione con le spese sostenute dagli altri accademici per l’ornamento e il decoro del Casino.
La Magistratura dei Gonfalonieri di Volterra, nella considerazione che aveva sempre avuta «l’alta soprintendenza» del Casino fin dalla sua istituzione, interveniva alle adunanze del corpo dell’Accademia con un suo Proposto pro-tempore, e, per la maggiore considerazione che ad esso veniva riservata, doveva sedere «in posto e sedia distinta» avendo presso di sè il presidente e il segretario dell’Accademia stessa.
Ogni anno, nel lunedì dopo la terza domenica del mese di settembre, veniva convocata una generale adunanza ordinaria per la elezione della deputazione per il governo dell’Accademia. Tale deputazione era formata dal presidente, che non poteva avere meno di trent’anni, da cinque deputati detti «uffiziali» e dal segretario. Si provvedeva, poi, anche alla elezione del «camarlingo», che rimaneva in carica per due anni, per l’esecuzione degli affari economici, e di altri due accademici destinati all’incarico del sindacato.
Il Casino poteva essere frequentato anche dalle donne, purché avessero il riconoscimento del requisito essenziale, cioè quello di appartenere alla «nobiltà». Non erano ammesse le donne che non avessero tale riconoscimento, anche se maritate a persone nobili così altrettanto era per quelle che, pur avendo il suddetto requisito, erano maritate a persona non nobile e, quest’ultime, riacquistavano il «diritto» alla frequenza del Casino, solo quando «per qualsivoglia motivo» venisse a cessare quel vincolo di matrimonio.
Detto opuscolo, del quale ho riepilogato brevemente la parte più importante, si compone di 44 pagine, divise in nove capitoli, con l’indice delle materie. In quest’ultimo mi ha sorpreso come sono scritti i vocaboli con la lettera «s», nei quali è sempre sostituita dalla «f»; per cui le parole come: abusi = abufì; ossesso = offeffo; ammissione = ammiffione e così via. Si dice che a quel tempo, tipograficamente parlando, la «f» sostituisse la «s», ma – a mio avviso -, nel caso in questione, essendo tale criterio riservato solo all’indice delle materie di dette «costituzioni» vuole essere più che altro uno «chic», cioè una distinzione in quei documenti che, per la «nobiltà» avevano particolare e preminente importanza.
Questa è essenzialmente una testimonianza della vita di un tempo, ormai passato alla storia, che ha regolato l’attività di detta «Accademia» fino ai primi mesi del 1943, cioè quando avvenne il suo scioglimento.
Il Casino dei Nobili, a quanto mi si dice, ebbe una delle prime sedi in via S. Lino, nel Palazzo Montoni, trasferendosi poi in Piazza dei Priori, nei locali del palazzo Pretorio. Successivamente vi fu il trasferimento nel palazzo Rossi, in piazza Martiri della Libertà e, infine, in via Buomparenti.
Il motivo che mi ha spinto, prima a questo sguardo superficiale sulla storia della nobiltà e poi alla rievocazione di costumi locali, non è stato dettato da intenzioni di critica, bensì dalla volontà di ricerca, nata – come ho già detto – casualmente, dalla scoperta di un documento tanto singolare, quanto storicamente interessante.