Il Castello dei vescovi nella sterminata foresta di Berignone, uno dei patrimoni boschivi più importanti dell’intera Regione, si trova su una modesta collina alla confluenza tra il torrente Sellate ed il Botro al Rio.
Nel 1839, nei pressi del castello, in località Gesseri, fu trovata una tomba a camera etrusca, il cui ricco corredo di raffinati gioielli del VII sec. a.C., proveniente molto probabilmente da Vetulonia, fu donato al museo Guarnacci dal vescovo Incontri.
Dell’antica fortezza rimangono in piedi la torre, alcuni tratti della cinta muraria che circondava il castello e numerose tracce degli edifici del borgo. I piani superiori del mastio, tre a giudicare dalle aperture sopravvissute, sono inaccessibili.
Adalberto, marchese di Toscana, il 1 settembre 896, donò il castello ad Alboino, vescovo di Volterra ed Enrico VI nel 1186 ne confermò il possesso al vescovo Ildebrando dei Pannocchieschi.
Nel castello e corte di Berignone, ricordati in un atto del 990, possedeva molti beni il marchese Ugo che li donò alla chiesa di Volterra. Nelle aspre e pressoché ininterrotte lotte con il Comune, i vescovi si rifugiarono spesso in questa loro roccaforte che fu, pertanto, ripetutamente assediata, più di una volta distrutta e poi ricostruita. Nel 1235 vi fu asserragliato il vescovo Pagano dei Pannocchieschi e nel 1267 uguale sorte toccò al vescovo Alberto degli Scolari. Nel 1231 gli abitanti del borgo si sottomisero all’autorità del Comune e nel 1257 il vescovo autorizzò Bonaccorso Adimari, podestà di Volterra, a giudicare le questioni che gli abitanti di Berignone avevano pendenti contro di lui; ciò nonostante le guerre non cessarono, tanto che nel 1277 il castello fu nuovamente distrutto, ma nel 1288 lo ritroviamo sede abituale dei vescovi.
Da un documento del 1305 sappiamo che vi era un Ospedale dei poveri, dedicato a S. Antonio.
Essendo la sede episcopale vacante, nel 1340 la fortezza fu affidata a Benedetto Belforti, pievano di Castelfalfi, con l’impegno di restituirla al nuovo vescovo, ma fu necessario l’intervento di papa Benedetto XXII perché il castello tornasse nelle mani del vescovo Ranuccio Allegretti.
I Belforti fomentarono una rivolta contro il vescovo, loro familiare, figlio di una sorella d’Ottaviano Belforti, che fece appena in tempo a fuggire nel castello di Berignone mentre suo padre con gli altri figli e con i pochi seguaci che aveva potuto racimolare, si preparò allo scontro nella piazzetta di S. Agnolo dove si erano barricati. Il padre fu imprigionato mentre gli altri si dettero alla fuga verso Berignone. Assediati nel castello, il vescovo acconsentì ad avviare una trattativa con i Belforti e mandò due inviati a trattare, ma questi appena fuori le mura del castello furono fatti prigionieri e minacciati di essere decapitati se il vescovo non si fosse arreso. Sperando forse nei soccorsi o credendo che le minacce non avessero seguito, il vescovo respinse l’ultimatum e i malcapitati ambasciatori furono decapitati bene in vista davanti alle mura del castello.
Dal testo della condanna ed esecuzione di Bocchino Belforti, rinvenuto da Mario Bocci nella biblioteca Guarnacci in un inserto fuori posto, si è potuto appurare che all’inizio della tirannia dei Belforti, Giovanni e Jacopo Allegretti, fratelli del vescovo, furono catturati ed uccisi mentre una figlia di Jacopo fu bruciata viva nella sua casa dai sostenitori dei Belforti. È pertanto possibile che i due prigionieri decapitati fossero i fratelli del vescovo.
L’assedio continuò, il presule, cominciando a mancare i viveri, fuggì verso l’abbazia di S. Galgano e quindi a Montalcinello. Poco dopo la sua partenza il castello fu espugnato con grande strage di quelli che caddero nelle mani degli assalitori.
L’accordo tra il vescovo ed il Comune per la gestione del castello arriverà solo nel 1394 ma nel 1399 fu occupato dai senesi, accorsi in difesa di Casole in guerra con Berignone per una questione di furto di bestiame, che lo restituiranno ai volterrani un anno più tardi.
Dai primi anni del XV secolo il borgo andò rapidamente spopolandosi e presto fu completamente abbandonato. Durante la sua visita, nel 1742, il Targioni Tozzetti trovò in piedi solo le rovine del mastio.
Il comune autonomo di Berignone era retto dal vescovo o da un suo vicario e da sette terrazzani del borgo, dei quali tre consiglieri, due provveditori, un carmarlingo e un ambasciatore, ai quali si aggiungeva una giunta composta di dodici elementi.
I vescovi volterrani battevano moneta già dal 1165, ma si videro riconosciuto questo privilegio solo nel 1315.
Com’era allora consuetudine la zecca lavorava solo sporadicamente e non sempre nello stesso luogo. L’argento proveniva dalle miniere di Montieri, sulle quali i vescovi vantarono diritti fino al XIV secolo. La moneta coniata era il Grosso volterrano, simile al Grosso agontano, usati nelle Marche. Il Comune batterà moneta dalla seconda metà del XII secolo. Ranieri III Belforti fra il 1315 ed il 1321 coniò cinque tipi di moneta, sempre a Berignone, delle quali due in nome del vescovo e del popolo volterrano.
“Berignone è un ambiente splendido, che per la sua selvaggia imponenza, si carica di colori elettrizzanti, di paesaggi inediti, di profumi nuovi, tutto in uno sfondo magico, saturo in un’atmosfera provocante, inconsueta, avvincente, eccezionale. “ – [E. Pertici]
È sempre un’emozione nuova salire verso La Torraccia.
Il tempo, amico dell’umana incuria, lavora implacabile a demolire i resti di una delle più importanti testimonianze della storia medievale di Volterra. Quattro – cinquecento anime abitavano il borgo che si stendeva a solatio ai piedi della Rocca. Bisogna sudarsela salendo un ripido pendio, la cima del castello. È un pomeriggio assolato degli ultimi giorni di una primavera particolarmente piovosa e vorrei rubare il verde intenso, carnoso, profumato, dei boschi che ci circondano a perdita d’occhio per farne dono ai bambini delle tante baraccopoli che popolano le capitali del ventunesimo secolo. Angelo e Fabio filosofeggiano: esisterà ancora e per quanto potrà sopravvivere nelle moderne università la facoltà di filosofia? Pensare, riflettere, ascoltare i rumori nascosti, scoprire il valore delle cose semplici, guardarsi dentro, alzare gli occhi al cielo che incredibilmente è ancora sopra di noi.
Il cammino è ancora lungo verso la meta odierna, il Botro a Rio, ma è difficile staccarsi da queste immagini. Scendiamo infine il profondo canyon che Angelo ha individuato come uno dei numerosi “geositi” presenti nella valle, patrimonio sinora di pochissimi specialisti. Alte pareti di ciottoli rossi, appena cementati con terra e pietrisco, costeggiano il botro. Troviamo un cane da caccia morto. Povera bestiola, forse quel giorno che rimase mortalmente ferita andò meglio al cinghiale. Siamo nel cuore profondo di Berignone. Risalire l’instabile e scosceso pendio senza l’aiuto della guida, che ha allungato il passo, è quasi un’impresa che Fabio ed io affrontiamo stoicamente, con dignità. Sono quasi le nove di sera quando siamo nuovamente vicini al pittoresco borgo di Mazzolla. C’è ancora piena luce e splendono il giallo delle ginestre, le biancane tondeggianti, il verde tenue dei prati e quello più cupo della fitta foresta che ci circonda, a perdita d’occhio.
Queste campagne, tra le più suggestive di tutta la regione, meriterebbero per questo di essere ancora più curate e salvaguardate.
Poggio Pelato avanza intorno a noi, inesorabilmente.
Tra i numerosi scritti consultati quelli di E. Fiumi, E. Pertici e C. Guelfi.