Dall’alto del Maschio si gode una visione da favola, uno dei più vasti e mirabili orizzonti d’Italia; ai suoi piedi il Parco Fiumi, la città, i borghi, più in là le dolci colline e i castelli che l’abbracciano a perdita d’occhio, i fumi delle ciminiere e del vapore di Larderello, i monti innevati degli appennini e il mare.
Nei giorni più chiari si possono scorgere l’isola d’Elba, la Capraia e la Corsica.
La Fortezza Medicea, voluta da Lorenzo il Magnifico per tenere a bada Volterra ormai sottomessa, fu costruita dopo la rovinosa guerra delle allumiere del 1472-75, aggiungendo alla Rocca del Duca d’Atene, più antica e denominata la Femmina, che sporge verso levante con un torrione poligonale che sembra la prora di un grande bastimento, il Maschio, la torre più imponente, al centro di un quadrilatero costituito da quattro torrioni, che serba nel suo seno l’orrore di carceri paurose, circondate da cupe leggende, per le quali le buie cripte furono spaventoso sepolcro di viventi per lunghissimi anni.
“Allorchè il visitatore, dietro la guida di un custode che con una lanterna gli rischiarava i cupi e disagevoli pertugi, discendeva in quelle carceri, gli sembravano scavate nelle tenebre della terra. Entratovi appena, per l’oppressione del respiro sentendo il bisogno dell’aria, correva ansioso allo stretto pertugio dal quale di mezzo ad una muraglia di molte braccia di spessore, languida e scarsa luce gli veniva trasmessa; giudicava allora di essere in un vero sepolcro, ove quasi impossibile rimaneva la vita.” [A. Cinci]
Franco Giovanni Costa, che ha vissuto suo malgrado lunghi anni come ospite della fortezza, descrisse la sua amara e nello stesso tempo ricca esperienza, nel bel libro Volterra, un’isola sospesa tra cielo e terra, con accenti profondi ed una carica enorme d’umanità: “Nei piani più alti del Maschio c’erano varie celle, con finestre da cui entravano un poco d’aria e di luce, mentre sul fondo erano state ricavate tre cellette senza aria ne luce, praticamente tre loculi che rappresentavano l’anticamera della morte. Una morte lenta, in un ambiente immondo, ove l’odore nauseabondo degli escrementi si univa alla puzza della cancrena. L’umidità era tale che i vestiti dopo poco tempo marcivano e cadevano a brandelli e lo stesso Castellano della Fortezza nei messaggi ufficiali indicava il sito come il “Marcitoio”. Il freddo era tremendo e dovendo accendere il fuoco per riscaldarsi, il fumo senza sfogo rappresentava un ulteriore elemento di tortura. L’unico collegamento con i piani più alti era rappresentato da una corda che serviva per calare il cibo ed i panni agli sventurati. Mi ha fatto piacere sapere che alcuni di loro, pochi per la verità, proprio utilizzando quella corda, riuscirono a trovare una via di fuga altraverso il tetto ed a scomparire nel nulla. Ma per qualche fortunato che riuscì nell’impresa, centinaia di altri, nel corso dei secoli, fino al 22 giugno 1816, anno in cui la Fortezza diventa ufficialmente reclusorio per legge granducale, con regolamenti meno crudeli, perirono nell’orrido o impazzirono o portarono, ancorché liberati, per tutta la loro esistenza, i segni fisici dei patimenti subiti.”
Alle celle del Maschio si accedeva da un ponte levatoio che poggiava nel mezzo della torre contro un’apertura che vi è rimasta. Entrati appena dentro dalla porta praticata al pian terreno, si trovavano due celle a volta, lunghe due metri appena, larghe meno d’uno, senz’altra luce che quella che poteva penetrare per un piccolissimo spiraglio tondo. La cella a destra si ritiene sia stata per qualche tempo la prigione di Caterina Picchena.
“Più truce è la prigione circolare, coperta da una grave volta, alta nel vertice appena due metri e mezzo, che giace completamente nelle tenebre, giacché lo spiraglio di luce che attraversa l’enorme sprone della torre non riesce a penetrarla, e solo apponendovi l’occhio mostra il disco esterno illuminato, come se si guardasse dentro ad un lunghissimo telescopio senza lenti. Segna il mezzo del pavimento in mattoni una lastra di macigno, non toccata forse mai da piede umano, mentre i mattoni appaiono solcati in giro, come la fossa di Maleo, da un perenne camminare. Narrano che i prigionieri girassero sempre all’intorno, sospettando che sotto quella lastra si celasse un agguato e ch’essa dovesse profondarsi in una fossa al primo contatto.” [C. Ricci]
Ascoltiamo ancora Franco Giovanni Costa: “Mi guardo intorno ed ho strane sensazioni, percepisco la presenza d’antiche entità. Ho l’impressione che l’aria intorno a me si popoli d’ombre trasparenti, invisibili, eppure presenti, n’afferro le vibrazioni. Eppure a volte, in qualche angolo particolare, o in corridoi senza luce, ecco un richiamo, come se mille mani uscissero dalle antiche pareti e cercassero di aggrapparsi a me, per cercare aiuto, per tentare di attirarmi nel loro mondo. Queste pareti, queste mura, trasudano sofferenze, sangue e tragedie antiche. Indimenticabile è l’emozione che si prova salendo le scale, rivivendo con la mente le mille tristissime storie e leggende, scolpite nelle pietre, sui muri, immaginando il ponte levatoio, sospeso nel vuoto, che si calava per inghiottire nelle buie viscere i malcapitati ospiti delle tetre celle.”
Per mitigare in parte l’orridezza delle prigioni, il ponte levatoio fu infine tolto e praticata un’apertura dal piazzale.
In quei tempi d’efferata crudeltà, i nomi delle infelici e spesso innocenti vittime, rimasero per lo più noti soltanto ai tiranni che ve li fecero racchiudere, né l’umana giustizia poté mai conoscere i pretesi delitti o le cause della barbara prigionia.
Tra i più noti dei quali si conosce la storia, vi furono relegati a vita Vincenzo Martelli, per aver composto un sonetto in biasimo del governo del duca Alessandro; Pandolfo Ricasoli, reo di aver proferito parole non gradite al duca stesso e Girolamo Giugni per semplici e forse mal fondati sospetti; Galeotto e Giovanni dei Pazzi, i soli scampati al massacro della loro famiglia dopo la fallita congiura antimedicea del 1478; i fratelli Lorenzo e Stefano Lorenzini, il primo matematico insigne e l’altro medico, vi languirono dal 1681 al 1696 per ordine del granduca Cosimo III senza che mai alcuno abbia potuto conoscere le loro colpe, vere o presunte.
Lo scrittore ed uomo politico Francesco Domenico Guerrazzi, incarcerato dopo il fallimento della repubblica democratica toscana del 1848, iniziò a scrivere in carcere il romanzo La figlia del senatore Curzio Picchena, ispirato alla tragica vita di Caterina che lo aveva preceduto in quelle celle.
Bellissima e amante della vita, Caterina Picchena, figlia di Curzio, già Segretario di Stato del Granduca Cosimo II dei Medici nel 1613 e poi senatore nel 1621, pagò duramente le sue virtù e le sue debolezze. La madre morente aveva raccomandato al marito la sua educazione con queste parole: “La nostra figliola, angiolo di bellezza e d’ingegno, possiede nel seno un inferno di passioni terribili: vedo in lei una smisurata sete d’amore terreno e non divino, in chiesa le piace l’organo perché le fa vibrare i nervi, spingendola alla danza; dei fiori esposti davanti ai Santi preferisce le rose, per farsene ghirlande ai suoi capelli biondi; delle reliquie vagheggia l’oro e le gemme, per ridurli in monili intorno alle sue braccia”.
Caterina ebbe una vita tempestosa e molti amanti, ma fu vittima innocente della cupidigia e della lussuria degli uomini. Fu imprigionata senza processo nel 1653, per ordine del Cardinale Carlo dei Medici, che aveva già tentato di possederla tendendole un tranello: respinto l’aveva fatta abbandonare nel bosco della villa in cui voleva darle i sacramenti, semisvestita, svenuta e quasi assiderata.
L’occasione propizia per vendicarsi dell’affronto subìto, gli fu offerta dalle losche trame ordite dai parenti dell’ultimo marito di Caterina, i nobili Buondelmonti che volevano impadronirsi del suo patrimonio.
Caterina, unica donna rinchiusa nel Maschio, vi morirà nel 1658, all’età di 50 anni, dimenticata da tutti, “senza poter rivedere nemmeno i figli”. [A. Baldisserotto]
Il conte Giuseppe Maria Felicini, passò oltre nove dei quarantatré anni di prigionia, dalla metà del XVII ai primi del XVIII secolo, nella cella più tetra.
Autore d’innumerevoli delitti, era costui “una delle più losche, corrotte e feroci figure che sia possibile immaginare; dalla mente così torta e dal cuore così pervertito da mutare ogni sentimento buono – amore, religione, carità – in tante espressioni mostruose e delittuose” [E. Ricci],
Sembra che anche in carcere abbia ordito il delitto, cercando di strozzare il confessore con il cordone della sua tunica, dopo di che avrebbe tentato la fuga vestendone i panni.
Fu il granduca Leopoldo, dopo una visita alla Fortezza, ad ordinare che le segrete “mai più fossero poste in uso ed a tal fine fossero demolite le ferree imposte che le chiudevano.”
La Fortezza è un carcere di massima sicurezza, dal quale evadere è un’impresa ardua, riuscita a pochissimi. Lawrence racconta una rara e simpatica evasione: “Due carcerati scolpirono in segreto una copia perfetta delle proprie teste con le pagnotte del carcere. Erano somigliantissime, con i capelli e tutto e la notte, quando il secondino faceva il giro con la lampada brontolava fra sé: ecco le canaglie che dormono. Invece scavavano alacremente ed alla fine riuscirono a scappare.”
Degna d’ispirare un film è la fuga in massa di tutti i prigionieri del luglio 1944. Volterra era sotto i bombardamenti alleati, i quali ritenendo che nella Fortezza ci fosse una forte presenza tedesca, iniziarono a bombardarla. Il panico fu tale che il Direttore, seguito dal personale, si dette alla fuga: sparirono tutti e così i reclusi, vestiti con i loro pigiami a righe, divelsero i cancelli e si dettero a loro volta ad una fuga tanto sfrenata quanto disperata, verso Porta a Selci, il seminario, o attraverso le viuzze della città.
“Fuggirono in 502, ma ben presto le truppe tedesche cominciarono a falciare i fuggitivi e mai si saprà quanti saranno i morti assassinati dal piombo nazista. Molti corpi vennero ritrovati alcuni mesi dopo, morti per le ferite, dissanguati dopo una lunga agonia. I prigionieri ricondotti nella fortezza furono 164, ma la loro odissea non era ancora finita. Alcuni giorni dopo il tenente tedesco responsabile della truppa messa a guardia della prigione, durante una perquisizione scopri un foro nel muro della cappella e pensando ad un nuovo tentativo di fuga, li fece riunire nel cortile per interrogarli. Fra questi ce n’erano 39 in attesa di giudizio e pertanto vestiti con abiti civili, ma nella convinzione che fossero invece prigionieri politici, il tenente li mise al muro per fucilarli e solo un provvidenziale intervento del cappellano del carcere don Maurizio Cavallini riuscì provvisoriamente a salvarli: in seguito, non potendo i tedeschi assicurare la custodia dei detenuti per mancanza di soldati, fù trovata una soluzione degna di un film di Totò o del grande Edoardo: i reclusi s’impegnarono a non tentare la fuga, se uno solo di loro scappava 20 suoi compagni sarebbero stati fucilati”. [F. G. Costa]
Il mio primo intervento provocatorio sul tema è del 1981, sulla rivista Volterra 7 diretta da Franco Porretti. Scrissi allora: “E’ un delitto imperdonabile che un monumento di quella portata sia adibito a galera. Propongo uno slogan: Il carcere a Volterra, la fortezza alla città! Volterra ha la potenzialità di un Centro Turistico Internazionale di prima grandezza e la Fortezza Medicea sarebbe per la città ciò che la Torre Pendente é per Pisa”.
La Casa Penale è una corposa realtà economica con la quale una città che ha subito lo smantellamento degli Istituti Ospedalieri, della Salina di Stato, la crisi dell’alabastro, il taglio di numerosi altri servizi, non può certo permettersi di giocare a cuor leggero, ma l’idea di un’approfondita riflessione sull’uso della Fortezza, rimane affascinante. Soltanto per le sue emergenze monumentali che più avrebbero bisogno d’interventi straordinari per la loro conservazione e valorizzazione – mura etrusche e medievali, Terme di S. Felice, Badia Camaldolese, Monte Voltraio, Castello dei vescovi, ecc… – ci vorrebbe però una legge speciale su misura. Pur nella piena consapevolezza delle difficoltà non possiamo però arrenderci, tanto più mentre sta faticosamente avanzando la proposta d’inserire Volterra nel patrimonio mondiale dell’UNESCO.
In un più recente intervento mi domandavo se non fosse il caso di provare a “ragionare su un tipo d’istituto che non richiede eccessive misure di sicurezza e di sorveglianza. Il carcere, nel momento stesso in cui cessa di essere un tabù inavvicinabile, diviene non solo più umano, ma più trasparente, più sicuro. Un luogo dove è più difficile commettere o subire soprusi”.
Molto è già stato fatto in questa direzione ma è possibile andare oltre? Ipotizzare, solo per fare alcuni esempi, che un diverso tipo di utenti potrebbe consentire un uso allargato della struttura? Una strada, che potrebbe dare interessanti risultati, è l’istituzione di una sorta di scuola – laboratorio per l’insegnamento dei mestieri che vanno perduti, che faciliterebbe il recupero dei carcerati e contribuire a salvare l’enorme patrimonio storico artistico architettonico che va in rovina.
Semplici utopie, chi avrebbe mai pensato, soltanto alcuni anni fa, che i detenuti potessero fare teatro, anche all’esterno del carcere? Oggi questa è solo una delle tante attività di un Istituto d’assoluta avanguardia.
“Ci sono voluti anni e una donna innamorata di Volterra, ma infine un passo importante è stato compiuto nella direzione auspicata: un suggestivo progetto che prevede di aprire all’esterno il Maschio, è in fase avanzata di studio. L’area del giardino lungo le mura dovrebbe essere messa a disposizione del Centro Teatro Carcere di Volterra ed aperta ai cittadini. La fortezza ospita oggi un istituto di detenzione all’avanguardia, la cui ambizione è quella di capovolgere il rapporto con la città divenendone un elemento di valorizzazione. Ogni mattina un piccolo drappello di detenuti, in continuo aumento, esce dall’istituto e va a lavorare nelle aziende nella zona e nello stesso tempo circa 60 persone, insegnanti e sarte, registi e tecnici, cuochi ed esperti culinari, entrano in carcere per svolgere una miriade d’attività collaterali organizzate in vari progetti.” [M. G. Ricci]
La Fortezza può e deve, nei suoi enormi spazi inutilizzati, aprirsi alla città, che deve sapersene riappropriare, favorendo anche la trasformazione dell’istituto da luogo di sofferenza a fucina di creatività e comunicazione artistica. [I. Psaroudakis]