Fra le cianfrusaglie della mia casa ho trovato una vecchia foto ingiallita scattata davanti al Palazzo Guarnacci abitato a quell’epoca da numerose famiglie e da molto tempo sede della Cooperativa Artieri dell’Alabastro. Gli scantinati di quell’enorme costruzione erano stati invasi da numerosi alabastrai che l’avevano ridotti a laboratorio e la foto di cui si parla, ritrae appunto cinque di questi lavoranti nell’atteggiamento tipico di mezza festa con l’immancabile fiasco del vino fra le mani.

Purtroppo si tratta di persone scomparse da tempo. Il quarto a destra è rimasto celebre per certe sue mattane e per il furore che sapeva suscitare fra la popolazione minuta per le bravure di spericolato fantino. Il nostro Tabarrino – al secolo Vincenzo Ceppatelli – figlio come il primo della fila, del più rinomato Tabarre fantino anche lui e vincitore di tante gare ippiche che a quell’epoca, oltre che a Volterra, venivano corse in molti paesi del piano. L’altro quello che sta riempiendo il bicchiere di Anito Pasquinelli il maggiore di una numerosa figliolanza che abitava in cima alla torre, è l’amico Beppino Del Rosso distinto signore nato fra le nostre mura e domiciliato a Parigi da moltissimi anni. Il nostro Beppino che nonostante il volger degli anni non ha cambiato fisionomia, era famoso per la sua irraggiungibile sveltezza nello scolpire putti e fedelini. Nelle giornate di maggiore impegno riusciva più lui ad «accatastare» busti e statuine che non la buonanima di «Mefero» tronchi di leccio fuori della Porta Marcoli.

L’ultimo della fila, quello che potrebbe essere scambiato per un intruso, o quantomeno per una persona fuori dalle intenzioni «bisboccesche» dell’allegra comitiva, è Nene di Mondo il più accanito bevitore di vino che mai abbia conosciuto Volterra. Cordialone con tutti e bontempone come la maggior parte degli alabastrai di allora, era dotato di una forte resistenza fisica e capace di riempire lo stomaco di un paio di fiaschi di vino al giorno senza il più piccolo segno di ubriachezza. Maggiore di una robusta stirpe di alabastrai proveniva – per discendenza materna – da quel famoso Bocci, un gigante alto un paio di metri, che nei momenti di trasporto familiare si «coccolava» la numerosa figliolanza mettendola a cavalcioni di una sola gamba. Il nostro Nene lavorava anche lui in questi scantinati. Alle prime luci dell’alba entrava in questo laboratorio occupato a menare la gamba intorno ad una coppaia per tirar fuori Tazze d’Arianna e lumi da tavolo. Lavorava senza mai alzare la testa sudando come un matto, ma alle nove in punto si alzava di scatto per andare a sedersi all’aria aperta sul muricciolo della torre in attesa della colazione che gli portavano da casa: un’abbondante pastasciutta ed un buon fiasco di vino rosso. Era questo il momento in cui poteva dar sfogo alla sua esuberante allegria.

Gli amici che passavano di lì nel vederlo buttar giù quella grazia di Dio lo chiamavano a gran voce e lui – divertito di tanta popolarità – rispondeva a tutti con la consueta cordialità. La sua predilezione era per le bestie e particolarmente per i gatti che chiamava vicino a sé: Gattai! gattai! – strillava. E le povere bestie gli si affollavano intorno per ricevere una carezza ed un biasciotto di pasta. Perfino i piccioni, numerosissimi fra i merli della torre, gli volavano addosso per beccare briciole di pane poste nelle sue mani.

LA VENA DEL VINO

Si racconta che uno di quei pomeriggi, trovandosi solo in bottega, sentì per l’aria un insistente profumo di vino. Si voltò e fra lo stupore vide che da sotto un usciolo murato nella parte di fondo veniva fuori un rigagnolo di vino rosso. E’ risaputo che in alcuni palazzi di Volterra medioevale gli scantinati, vasti quanto l’area del fabbricato, servivano agli antichi padroni per tenere in botti enormi la raccolta del vino e dell’olio. Nel laboratorio di cui parliamo la parte intera di questi fondi era stata occupata da un contadino che l’aveva trasformata in «cigliere». Dato che non si fidava gran chè dei nostri alabastrai, aveva sbarrato l’accesso con una porta murata a gesso nella parete di mattoni. Quel giorno era avvenuto che la cerchiatura di una di queste botti, forse logorata dalla ruggine, si era spezzata lasciando uscir fuori tutto il contenuto. Nene alla vista di quel rigagnolo rosso si gettò per terra e con la polvere di alabastro costruì una diga per immagazzinare quel liquido prezioso. Naturalmente si assicurò bene che si trattasse di vino vero e poi uscito fuori della bottega si mise a correre per Via di Sotto gridando a perdifiato: Venite! Venite! Ho scoperto la vena!

Gli alabastrai uscirono dai loro bugigattoli e di fronte a quella specie di furia si domandavano se per caso il loro amico non fosse uscito di senno. Quando però fra uno strambotto e l’altro si resero conto di quanto stava accadendo lo seguirono nella bottega pronti a gettarsi su quella manna benefica. Purtroppo però prima di loro era arrivato Costoloni e del laghetto di vino non c’era rimasto che la terra arrossata.

Erano quelli i bei tempi per l’intera comunità volterrana dopo la lunga bufera che aveva sconvolto il vecchio mondo in quattro anni di guerra micidiale. Studi di scultura e botteghe di alabastrai si erano riaperte e moltiplicate. Nuove leve avevano sostituito i lavoratori anziani ed anche dalla campagna era salita gente sul «poggio» per prendere posto in questa specie di mècca.

Lavoranti dell’alabastro erano dislocati in ogni angolo della città. Le vecchie botteghe della Porta all’Arco e del Labirinto, delle Mura e della Pietraia, di Porta Fiorentina e Porta a Selci con tutti i vicoli adiacenti, si erano letteralmente gonfiate spinte dai nuovi impulsi. Perfino persone fuori dell’ambiente, bramose di facili guadagni, si erano improvvisate industriali procurando all’industria e a sé stessi danni non indifferenti. Il cigolio assordante dei torni a motore che avevano preso il posto di quelli a pertica, aveva interrotto il silenzio operoso che da molti secoli gravava sull’intera città.

I vecchi alabastrai, quelli che nella loro vita non avevano conosciuto altro che miseria, accolsero i nuovi arrivati con amore fraterno insegnando loro i segreti del mestiere e quello meno difficile della bisboccia.

Il detto che gli alabastrai trascorressero più ore all’osteria che al banco di lavoro, era una storiella tirata fuori ad arte poiché a conti fatti il tempo lavorato da questi operosi era di gran lunga superiore a quello di altri artigiani.

LA FUNZIONE DELL’OSTERIA

L’osteria, come ritrovo per discutere, giocare e abbandonarsi all’ozio, era un’attrattiva a cui nessuno sapeva resistere anche se in famiglia le cose non andavano bene. C’erano a quell’epoca più botteghe di vino in Volterra che chiese in tutta Roma. Bastava mettere il naso fuori della porta di casa per trovarsi davanti ad una di queste bettole.

Se da Piazza dei Priori, ove troneggiavano le insegne di Quintilio Ceppelli – ritrovo dei politicanti di sinistra – e di Cervellino, si scendeva giù per via Ricciarelli si trovava subito la bottega del Barca ed a pochi passi quella del Casini. Poco più giù c’era Massimo, il corpulento Mangiaragazzi, sgolato tutto il giorno a chiamare il suo introvabile Guido mezzo addormentato sullo sgabello davanti alla sua osteria. Presso le Scuole di San Lino la bottega di Ciriva serviva da «santuario» al numeroso studio dei fratelli Montoni. Però il locale più tumultoso davanti alla Chiesa di San Francesco, ove le liti erano all’ordine del giorno, era quello di Emilio di Giano, vero ricettacolo di tutti gli alabastrai del Chiostro e dintorni e del bracciantato di fuori porta prima ancora che Beppe di Berignone ne costruisse una completamente nuova davanti al Gioconovo.

Troppo lungo sarebbe descriverle tutte ad una ad una ma, per chi avesse voluto fare una scorpacciata di chiocciole, stoccafisso e panzanella, dopo una leggera rinfrescata da Franio di fronte al Prete Marzo, poteva tranquillamente fermarsi dalla Quinta o dal Ciompo per finire da «Bazza» in fondo ai Borghi dove nella stagione propizia, venivano servite pappardelle o intingoli sulla lepre (quando non era coniglio o pecora marcia) con la modesta somma di un paio di lire. Sorvoliamo sulle quattro osterie di via Sartifamosa quella di Bardassa – per fermarsi un attimo sulla piazzetta di San Michele dove Panio gestiva una bella locanda e dove abbastanza vicino c’era la bottega del «Bibi». Davanti al Cinema Centrale faceva spicco l’accreditato «Balosce» e poi, dopo «Lo Stallone» enorme stanzone preso di assalto al mattino dai divoratori di trippa, salendo per via Nuova fino a Porta a Selci si incontravano altre quattro ben fornite osterie. Era davanti ad una di queste botteghe, quella del Gazzarri del Giardinetto, che le numerose schiere dei seminaristi, marcavano il passo per spingervi dentro di nascosto l’erculeo «Castello» a rifornirsi di scintillanti «lanterne».

Sant’Alessando e San Lazzero, tanto per non essere da meno degli altri rioni, vantavano due o tre osterie per ciascuno. Questo per dare l’idea dei punti più centrali di Volterra, ma anche in vie secondarie, come quelle delle Prigioni, o della Misericordia o giù per la Porta all’Arco, non mancavano questi spacciatori di vino. Chi di passaggio avesse voluto bere un buon bicchiere poteva entrare in via del Campanile da «Beppe di foglio». Però bisogna ispirare fiducia al nostro Beppe altrimenti si rischiava di essere trattati male perche lui, il vino che teneva nascosto sotto il banco, lo mesceva solo a chi reputava buon bevitore.

Premesso che il vino non piacesse solo agli alabastrai, quelli che desideravano appartarsi (i cosiddetti ubriachi civili) per non essere tacciati di persona volgare, si nascondevano nelle salette della locanda «La Stella» dietro il San Giovanni dove potevano vuotare quanti fiaschi volevano poichè per smaltire la sbornia, erano più che sufficienti le accoglienti camerette di «Sora Clelia». Con tanta grazia di Dio a portata di mano anche il più santo degli uomini sarebbe caduto in tentazione.

Si dice che il nostro Nene si fosse mantenuto astemio o quasi fino all’epoca del suo matrimonio. Nell’osteria, nonostante il mestiere di alabastraio, non era mai entrato. Le brutte amicizie venute dopo ad alcuni dissapori, lo convinsero ad affogare tutto nella bottega di «Emilio di Giano». Fu proprio lì che una volta poco mancò non ci rimettesse la pelle. Come accadeva sempre quando le menti si annebbiavano ed il più piccolo screzio era sufficiente per attaccare briga, ogni questione si risolveva sempre fuori della bottega in una rissa generale. Non mancava nemmeno chi mettesse mano al coltello che ogni persona, anche dabbene, teneva fra le tasche per i bisogni del caso nonostante il divieto della legge. Fu proprio in una di queste occasioni che il giovane Nene si ritrovò all’ospedale con la pelle sforacchiata e quello che è peggio, sotto accusa per le colpe che i suoi compagni gli avevano scaricate addosso nonostante si fosse trattato della persona più pacifica di questo mondo.

Per evitare l’onta della prigione il poveretto dové disfarsi perfino della modesta casetta di via della Ripetta che la buonanima di «Trotto» aveva lasciato in eredità alla figlia.

«Trotto» che l’aveva accolto nella propria casa come un figlio, non faceva parte della famiglia degli alabastrai. Da buon campagnolo, considerava gli alabastrai tutti figli del diavolo. Era un lavoratore della terra. Uno di quei braccianti che lavoravano ad opre e nei momenti di minore occupazione si recavano con la moglie a dissodare un pezzo di terra magra dove poter raccogliere grano da mettere in casa per tutto l’anno, qualche po’ di fagioli, cavoli e pomodori per la zuppa da portarsi dietro ogni qual volta venivano reclutati per i lavori dei campi. Anche lui era uno di quei poveri contadini che, trovandosi in soprannumero in famiglia, avevano abbandonato il podere per correre l’avventura della città disposti a qualunque lavoro pur di tirare avanti. Per prima cosa si accasavano nei borghi in attesa di occupare un quartiere in città che non andava mai oltre quelli situati nel vicolo dei Ciliegini o del Mandorlo od in quelli dei Vecchi Ammazzatoi. «Trotto», uomo di grandi qualità, era fra l’altro un vero timorato di Dio. Tutto lavoro, casa e chiesa. A forza di risparmi era riuscito perfino a comprarsi una casetta. Faceva parte della «Compagnia della Croce» e come tale lo si vedeva a tutte le sacre funzioni e immancabilmente nelle processioni a portare stendardi e biascicar rosari. Quella volta però che le pioggie autunnali lo costrinsero a rimanersene a casa per più di una settimana, senza poter guadagnare nemmeno un quattrino, poco mancò che la sua grande fede in Dio crollasse per sempre. Ogni mattina all’alba metteva fuori la testa per scrutare il cielo che purtroppo rimaneva sempre imbronciato. Alle volte usciva con l’intenzione di recarsi nei campi, ma il persistere della pioggia e le strade tutte infangate, lo rispedivano a casa bagnato come un pesce. Dalla disperazione avrebbe anche bestemmiato ma certe cose non si addicevano ad un servo di Dio. Una di queste mattine in cui l’acqua scendeva dal ciclo con una violenza da mettere paura, fu preso da un tale sconforto che staccato dal capo del letto un grosso crocifisso corse di filato alla finestra e dopo averlo appeso al tendipanni esclamò con rabbia: Tieni! Ne ho presa tanta io dell’acqua, prendine un po’ anche te!

Un altro duro colpo all’industria alabastrina, dopo una tremenda crisi di fine secolo, venne inferta nell’estate del 1914 dallo scoppio delle ostilità franco-tedesche. Una paralisi imprevista in cui i grandi sbocchi per l’alabastro, Parigi e Berlino, chiusero i battenti e Volterra si trovò ancora una volta senza compratori.

Alla meno peggio resistettero i più facoltosi ed i più capaci, ma per la grande massa non c’era che lo spettro nero della miseria. In qualche caso, come quello della sistemazione dell’ultimo tratto di strada di Porta a Selci, la Sant’Andrea, provvide l’Amministrazione comunale allo scopo di occupare quelle braccia inerti. I nostri bravi artieri messi da una parte scalpelli e scuffine e armati di pala e piccone fecero buon viso a cattiva sorte.

Purtroppo a togliere di mezzo la disoccupazione provvide la guerra con l’entrata dell’Italìa nel grande conflitto a fianco degli alleati.

Giovani e meno giovani partirono per le armi lasciando un vuoto profondo in ogni settore dell’attività cittadina. Nelle botteghe degli alabastrai non erano rimasti che vecchi e ragazzi e all’allegro vocio di qualche tempo prima era subentrato un cupo silenzio. Tutti avevano qualche congiunto alla guerra e le discussioni trattavano solo argomenti bellici.

I più vecchi si ritrovavano ancora all’osteria per la solita partita, ma senza alcun entusiasmo e qualche volta senza dirsi nemmeno una parola perchè magari al compagno di gioco la sera precedente era giunta dal fronte la notizia della morte del figlio.

– Stasera non si fuma! disse il vecchio «Tacchi» entrando nella bottega di «Giano» – Sono andato per comprare un po’ di tabacco e ho trovato l’appalto di Angiolino completamente chiuso. Credevo avesse anticipato la chiusura e invece mi hanno detto che un paio di ore fà ha ricevuto la notizia della morte del suo Anito. Poveretto! Era ufficiale di fanteria.
– Certo, ribattè un altro, stamani non sapeva nulla davvero perchè l’ho visto nella bottega accanto a far coraggio a Gianni l’orologiaio che piangeva così forte da spezzare il cuore. Anche lui povero vecchio è rimasto completamente solo. Non aveva che quel figliolo.
– Quanti lutti! Quanti giovani che non torneranno più! Mi hanno detto che il Pochini, quello della Posta che fa parte del Comitato di Assistenza, è tutto il giorno che corre da una via all’altra a portare queste belle notizie. Si dice che sono arrivati tanti telegrammi e molte comunicazioni le daranno domani. Speriamo bene! Anche il mio ragazzo è più di una settimana che non manda notizie.
Si alzarono a testa bassa e, ad uno ad uno, uscirono dall’osteria senza darsi nemmeno la buonanotte.

Nonostante che Volterra fosse una zona agricola i viveri scarseggiavano come in ogni altra parte d’Italia. Il pane, raramente di grano, e la carne, come lo zuccher0 e l’olio, erano completamente razionati. L’inverno del 1916-1917 si presentò più rigido del solito. In una sola nottata Volterra divenne un blocco di ghiaccio. Per attraversare le strade occorreva fasciarsi le scarpe con tela juta, ma nonostante queste precauzioni gli scivoloni e le caviglie slogate erano all’ordine del giorno. Di questi inconvenienti rimase vittima anche il povero «Petuzzo» una delle figure più caratteristiche dei diseredati volterrani. Eterno monello non era di estrazione alabastraia, ma dal buon cuore degli alabastrai traeva alimento per la sua magra esistenza. Onesto fino allo scrupolo si professava anarchico. Non aveva nè un mestiere, nè una dimora. Mangiava quando ne aveva e dormiva dove trovava. Di tutto e di tutti voleva dire la sua senza peli sulla lingua, anche a costo di finire in prigione come gli accadeva spesso. Gli avvenimenti piccanti della nostra cittadina gli offrivano l’estro per le sue improvvisazioni poetiche di stile boccaccesco che non lesinava mai, nemmeno in presenza dei più diretti interessati. Con una gamba rotta venne ricoverato in ospedale che fu per lui un breve soggiorno per un rapido passaggio al cimitero. La cosa fece stupore ed i più maligni dissero che si era trattato di una regolazione di conti.

Il freddo e la fame fecero la loro parte di vittime ed alcune vecchie figure se ne andarono con Dio. Poichè le disgrazie non vengono mai sole alle calamità del momento si aggiunse un tremendo colera – chiamata spagnola – che fece più vittime della guerra.

Finalmente la grande bufera ebbe termine e con il sereno ritornarono i sopravvissuti di quella immane sciagura. Fra i tanti ritornò anche il nostro Nene che, nonostante l’età, era stato richiamato insieme ad altri coetanei a far da palo negli accantonamenti del retro terra.

E così seguendo i nostri amici eccovi ritornati al punto di partenza, vale a dire, nel momento della maggiore espansione dell’alabastro. Tutti felici e tutti spendaccioni i nostri cari alabastrai. Bisognava vederli al Sabato mattina al mercato di Piazza dei Priori. Avrebbero acquistato anche il Palazzo comunale se per caso fosse stato posto in vendita.

Nene faceva spicco fra gli altri compratori per le sue preferenze per gli animali pennuti. Con un tacchino intorno al collo e due paia di galline appese alle braccia, faceva il giro delle vie del centro per ostentare alla vista di tutti le sue eccezionali doti di forte epicureo.

Anche questo benessere fu di breve durata. Autarchia e quota 90, imposte dal nuovo regime, spazzarono via in breve tempo questa specie di «boom volterrano» che non aveva resistito nemmeno un decennio.

I grandi laboratori smobilitarono tutti ad uno ad uno ed i più piccoli si accontentarono di vivacchiare alla meno peggio invischiati fra le cambiali o preda di accaparratori strozzini. Molti cambiarono mestiere ed una parte venne assorbita negli Istituti Ospedalieri.

I «santuari» dei nostri artieri – le vecchie botteghe di vino – chiusero anch’esse i loro battenti trasformate in magazzini o rivendite di generi alimentari.

Al Lunedì, tanto per non perdere le vecchie abitudini, qualche sparuta comitiva dei più incalliti, come quella di «Craziola», la potevamo trovare dietro il muro dei «Cappuccini» o ai «Leccetti» in fondo ai borghi. O sotto le mura del Conservatorio di San Pietro, al tempo in cui le attuali costruzioni erano di là da venire: lo sperone di terra che scende giù fino alla strada di «Fonte Marcoli» era costituito da un verde selvatico. O su in alto, in un angolo dove certe comitive, nelle domeniche di bel tempo, si recavano a far merenda.

Fu in questa località che una volta il nostro Nene venne raggiunto da una brutta notizia: uno dei suoi fratelli colto da improvviso malore era deceduto in pochi minuti. La gente vicina, dopo i primi soccorsi, si dette subito alla ricerca dei congiunti. Due di queste persone partirono alla ricerca di Nene e saputo dove l’avrebbero trovato, si misero in cammino discutendo fra loro a chi toccava parlare per primo.

– Non si sa mai, dicevano, a portare certe notizie c’è da far prendere un accidente a chi le riceve. Non volevano arrampicarsi fino lassù e giunti a metà salita si misero a chiamare a gran voce: Neneee! O Nene!
– Son qui; son qui rispose l’interpellato. Chi mi vuole?
– Scendi giù che ti dobbiamo parlare! E’ cosa urgente.
– No! Venite su voi che sono occupato.
– Vieni tu! Scendi subito che abbiamo una notizia da darti.
Finalmente dopo un vivace scambio di: vieni tu, non vengo io!, il nostro amico si decise a scendere il poggio fino ad incontrarsi con i due.
– Sai Nene, è accaduta una disgrazia a tuo fratello!
– Cosa?
– E’ morto sul colpo. Vieni con noi che ti accompagnamo alla sua casa.
A quella notizia il povero Nene rimase senza fiato. Si grattò più volte la testa e poi: O come? Se stava veramente bene!
– Vieni via subito che ti aspettano.
Lui ci pensò sopra un istante poi rivoltosi ai due esclamò: Aspettate un momento! Torno sopra un attimo e vengo subito con voi. Che cosa volete se non mi faccio più vedere quegl’ingordi mangiano anche la mia parte.

Sulla dura situazione di Volterra e di quella in particolare del nostri cari alabastrai che dovettero subire molte umiliazioni per un lungo periodo è storia fin troppo recente che gran parte dei nostri lettori conoscono molto meglio del sottoscritto.

I bontemponi di allora, i pochi sopravvissuti, non dimenticarono le vecchie abitudini nonostante l’evoluzione dei tempi.

Un giorno che «Maccarano» si trovava sulla porta della propria osteria in eterna discussione con «Manno» che di proposito svalutava il vino della sua bottega, passò davanti a loro il povero Nene alquanto invecchiato che si appoggiava ad un bancone mentre con l’altra mano teneva una bottiglia.
– O Nene! disse «Maccarano», o che ci hai in quella bottiglia? Sembra tu porti l’ollio santo!
– E’ Marsala! Sai sono stato dal medico il quale mi ha detto: Se volete vivere ancora dovete smettere di bere il vino. Cosa avresti fatto te? Io allora mi limito a bere la marsala…

Gli ultimi anni poveretto li passò inchiodato su di una seggiola. Non ci vedeva quasi più ed era divenuto del tutto sordo. Fu in quella occasione che gli feci pervenire una bottiglia di vino passito dell’Isola d’Elba che mi avevano mandato in regalo. La persona che glielo portò cercò di fargli capire chi l’aveva inviato e di che cosa si trattasse. Lui capì ben poco di tutto. Se lo portò alla bocca e tutto soddisfatto esclamò:
– Dell’Isola? Deve essere una gran brava donna per ricordarsi di me!

Se ne andò che aveva quasi novant’anni senza mai lamentarsi un momento.

Era felice quando poteva gustare un buon bicchiere di vino. Se qualcuno però intendeva fargli uno scherzo aggiungendo acqua nel vino, tentennava la testa e spalancando i suoi occhietti furbi abbozzava un mezzo sorriso come per ricordare l’antico detto degli alabastrai: io con l’acqua, mi ci lavo i piedi…

Oggi delle quaranta osterie che vantava Volterra, non c’è rimasto nemmeno il segno. I giovani alabastrai il vino lo bevono in famiglia e quando si recano al caffè per conversare con gli amici, lo fanno quasi sempre accompagnandosi alla moglie.

© Pro Volterra, DINO LESSI
Alabastrai Buontemponi, in “Volterra”