La lavorazione dell’alabastro avviene in locali semplici, chiamati botteghe.
Questo passaggio molto delicato è caratterizzato da influssi, abilità e capacità personali. Viene delineato da esperienze maturate nel tempo, da acquisizioni ed evoluzioni tecniche, da esigenze congiunturali e commerciali e da piccoli segreti individuali gelosamente custoditi.
> Sommario, la manifattura degli alabastri del XX secolo
La polvere di alabastro ricopre e vela ogni oggetto qui giacente, dal pacchetto delle sigarette alla immancabile bottiglia di vino e, insieme agli originali ed indispensabili “ferri”, concorre a comporre un ambiente ricco di un fascino unico.
Il primo atto nella filiera della lavorazione è il reperimento della pietra tramite la escavazione.
Questo avviene in depositi naturali chiomati “cave”, dove i lavoratori, chiomati “cavatori”, raggiungono la pietra dalla superficie (come suol dirsi “a cielo aperto”) o nella profondità tramite gallerie. Nella prima modalità vengono usati tutti gli attrezzi ed i mezzi atti allo scavo movimentati dalla sola forza umana (picconi, zappe, pale, Ieve, subbie, ecc.), anche se negli ultimi anni si sono aggiunti i moderni mezzi di escavazione quali ruspe, pale meccaniche, fork lift.
Anche nelle gallerie si usavano i mezzi manuali della superficie, cui si aggiunsero agli inizi degli anni Sessanta il martello e lo scalpello pneumatici e carrelli trasportatori a trazione elettrica. A differenza della escavazione del marmo, con molta prudenza, è stata fotto uso di materiali esplosivi, in considerazione delle caratteristiche geofisiche dell’alabastro. Infatti l’onda d’urto si propaga all’interno della masso che viene “rintronato” presentando poi sottili crepature interne, che si manifestano durante la lavorazione o addirittura sul prodotto finito. Il ricorso alle mine avveniva nelle cave a cielo aperto per ripulire la cava da ingombrante e inutile materiale accessorio e, per ottenere un’ottimale frantumazione, veniva fatto ricorso alla dinamite.
Oppure avveniva nelle gallerie, quando era rinvenuto un arnione talmente grosso (in genere oltre i 25 quintali) da non poter in altra maniera essere ridotto o pezzi più adotti alla lavorazione. E si creavano seri problemi quando un siffatto arnione era rinvenuto nelle gallerie: occorreva allora tutta una serie di procedure dettate dalla prudenza, dalle prevenzioni antinfortunistiche e dalla necessità di non procurare danni alle altre masse di alabastro che giacevano nella cava. In questi casi l’esplosivo utilizzato era la polvere nera, che creava una detonazione più morbida. Un altro problema che poteva verificarsi nelle gallerie era il reperimento di falde acquifere o di infiltrazioni durante le piogge più copiose. Il primo provvedimento era rappresentato da tentativi di imbrigliamento, di deviazione e di defluizione.
Se tutto questo non raggiungeva lo scopo desiderato non restava altro che abbandonare quel filone e cominciare un’altra galleria. Gli ovuli idonei estratti venivano collocati in magazzini attigui alla cava.
Estratto l’arnione si passava poi a una serie di operazioni eseguite da manovalanza multiforme che, pur essendo in possesso di caratteristiche particolari, non assurge ad eccelsi livelli di specializzazione. Si procedeva quindi alla ripulitura.
La ripulitura dell’ovulo avveniva asportando il materiale accessorio che costituisce il “guscio”. I detriti e gli abbondanti materiali di ripulitura venivano ammassati all’esterno. Segue quindi la sgrossatura.
La sgrossatura consiste nel rendere quanto più omogenea tutta lo superficie esterna, asportando protuberanze non opportune. Si procede poi alla segatura o squadratura.
In questa fase avveniva il confezionamento di un blocco che fornisce la quantità necessaria per l’esecuzione del lavoro che è stato programmato. Questo passaggio avviene ad opera di artigiani chiamati “squadratori”, particolarmente esperti e in possesso delle opportune attrezzature per raggiungere la dovuta squadratura. Questa avviene con vari tipi di seghe che lavorano in senso orizzontale e sono chiamate “a strascico”, varianti a seconda del volume della pietra estratta: la più grossa era chiamata “trincione”, per il cui uso occorrevano due operai, poi uno era chiomato “a morso” e, infine, una sega capace di essere guidata in varie direzioni e chiamata “svoltina” per questa sua adattabilità.
Con l’avvento della corrente elettrica si è fatto ricorso all’uso di macchinari mutuati dall’industria meccanica o del legno, come le seghe circolari, i dischi diamantati, le fustelle, le frese. È durante la segatura che possono comparire i difetti della pietra che rendono difficoltosa o addirittura impossibile ogni prosecuzione dello lavorazione, come abbiamo già precedentemente descritto.
A questo punto inizia il lavoro vero e proprio da parte degli artisti, i quali posseggono doti di capacità e qualità innate, raffinate poi con studi o esperienze che consentono loro di applicarsi in lavori particolari e di elevato contenuto artistico.
Esiste localmente un termine, caduto ormai in disuso nella letteratura italiana, con cui si definiscono genericamente tutti coloro che concorrono alla lavorazione: “Artieri dell’alabastro”, termine con cui si definisce anche uno storico e qualificato Cooperativo. Ma è in base alla tipologia della produzione che tali “artieri” vengono ulteriormente definiti ed apprezzati con i termini ben precisi.
Ci sono gli scultori (o figuristi); il loro oggetto fondamentale è la figura umana. Gli Animalisti; sono gli animali la base della loro opera. Tornitori; definiscono una forma geometrica, semplice, basilare priva di decorazioni. Gli Ornatisti; spaziano in meravigliosi lavori con fiori, frutti, foglie, disegni geometrici.
La lavorazione del tornitore si differenzia nella strumentazione e nei manufatti: vasi, anfore, colonne, piatti, che l’ornatista può rifinire con tralci, fiori, frutta ed altro. Ancora oggi il tornitore crea un manufatto, il cui modello è stato progettato in precedenza con l’ornatista e sarà quest’ultimo a portare a termine il lavoro.
Ogni processo tecnico è composto da una o più catene operative, con le quali si raggiunge il prodotto finale. In ogni catena operativa si succedono fra loro le fasi di lavorazione, dove più operazioni producono modificazioni intermedie rispetto al risultato finale. Una volta che nella bottega dell’artigiano giunge l’ovulo di alabastro si dà inizio alla sua trasformazione attraverso la segatura nella scultura, la contornatura nell’animalistica, la scandagliatura nella tornitura e la spartizione nell’ornato; queste quattro catene operative preparano la pietra prima della lavorazione.
Nella scultura, ed in genere anche negli altri processi tecnici, la fase della segatura si articola in varie operazioni che vanno dalla preparazione del disegno o del modello in gesso al taglio della pietra. Questa fase può suddividersi in più momenti a seconda delle dimensioni dell’ovulo, che viene dapprima tagliato con il “trincione” una sega di grosse dimensioni azionata da due operatori detti “segantini”; se il manufatto da realizzare è molto grande, il blocco tagliato viene posto sul “trespolo”, piano di lavoro in legno sostenuto da tre gambe, per la sbozzatura altrimenti subisce un secondo taglio verticale con la “sega a morsa” che tiene fermo il pezzo per un’estremità, mentre l’altra viene tagliata con lo “svoltino”, una sega di piccole dimensioni, con lama a doppio taglio, che viene “svoltata” a seconda delle necessità. Segue la “sgrossatura” con la “martellina”, martello dal taglio su ambedue le estremità. Questa operazione inizia a dare una prima forma al pezzo.
Nell’animalistica, prima del taglio dell’ovulo, l’artigiano prepara un disegno dal quale trarrà la sagoma o contorno dell’animale da realizzare ed in base a quest’ultimo si effettua il taglio della pietra seguendo, con lo svoltino, il contorno dell’animale, precedentemente disegnato sulla lastra.
Nell’ornato non sempre prevede la segatura della pietra, dato che questa specializzazione si esegue solitamente su un semilavorato, mentre è fondamentale la preparazione del disegno, concordato prima con il tornitore od un altro artigiano che realizza il pezzo. Lo schema del disegno si riporta sul pezzo misurando con le seste gli spazi da ornare e spartendoli in modo proporzionato sul lavoro.
Nella tornitura il taglio è preceduto dal quantificare quanta pietra l’operatore può ricavare dallo scavo interno del lavoro, in modo da destinare il materiale in più per la realizzazione di oggetti piccoli. Segue una prima segatura, dal quale si trae lo “sbozzo” e si continua con la “scandagliatura” eseguita con martellina, seste, trincione e svoltino fino a che, seguendo il contorno circolare della pietra, si ottiene un cilindro con base conica.
In tutti i processi operativi seguono le catene operative centrali.
Per la scultura lo è la modellatura dove l’artigiano sbozza il pezzo, posto sul “trespolo”, seguendo un modello di riferimento dal quale sono continuamente prese le misure con la “croce di legno” e la “macchina per i punti”.
Il resto dello strumentario (subbia, ferri a mazzolo, gradina tonda, a fagiolo, dritta e dentata) contribuisce a dare allo sbozzo informe le sembianze del modello di riferimento, mentre i “ferri a forza” le “scuffie” ed i “ferrini a mano”, facendosi tutt’uno con l’artigiano, danno vita e movimento al manufatto, tratteggiandone i particolari. Per le figure umane un’apposita pasta, ottenuta sciogliendo in acqua una polvere detta “polvere di micio”, consente di ombreggiare il volto.
L’animalistica presenta come catena operativa centrale la sfaccettatura. L’oggetto subisce una prima sbozzatura esterna con lo svoltino, che segue le linee del contorno ed i ferri a mazzolo.
Dopo la sbozzatura esterna l’operatore passa con strumenti specifici (“minarola” e “gattuccio”) a svuotare e arrotondare le parti forate o curve. Segue la sfaccettatura esterna con lo svoltino e la ripulitura interna con la scuffina. Come nella scultura si dà gli ultimi ritocchi al pezzo: si leviga l’esterno con una lima e si ripulisce l’interno del lavoro con le scuffine, per concludere con i ferrini a mano con i quali si tratteggiano i movimenti e la muscolatura dell’animale.
L’ornato presenta come catene operative centrali la raspatura e la modellatura.
La raspatura si suddivide in varie operazioni e comprende un primo tratteggio del manufatto con la raspa e la gradina per proseguire con la foratura della pietra grazie al “violino”, un trapano a vite utilizzato anche nella lavorazione del legno. Si conclude tutto con il dare maggiore rilievo alle profondità del pezzo con lo svoltino.
Nella modellatura l’ornatista smussa la pietra e porta in risalto i particolari, dando movimento alla figura, si utilizzano tutti gli strumenti precedentemente citati.
La tornitura ha più catene operative centrali: la sbronconatura, la scorollatura e la spessoratura.
Il pezzo di alabastro che deve essere tornito viene fissato al tornio, dal momento che è lo pietra che deve ruotare. La sbronconatura consiste nell’uso di uno stucco composto da pece greca, cera vergine e polvere di alabastro. Con questo stucco di colore giallastro viene attaccato al tornio il pezzo di alabastro e, concluso la tornitura, il pezzo viene staccato dal supporto con un secco colpo di martello che richiede molta abilità e talora anche un po’ di fortuna, perché la fragilità dell’alabastro consente urti di violenza molto limitato. Esiste una serie ampia di ferri che vengono usati in questa fase, con nomi alquanto originali rampini, sciabola, foglia, mezza foglia ecc. Con i trapani moderni sono entrate in uso le “fustelle”, cilindri di varie carature dotate di una serie di dentature con cui penetrano nella pietra.
Un’altra modalità di preparazione di pezzi è costituito dalla scorollatura. Essa consiste nel ricavare da un singolo blocco precedentemente arrotondato una serie di coppe o mo’ di scatole cinesi, ottenendo un notevole risparmio di pietra. Operazione difficile, delicata, non alla portata di tutti e che richiede una serie di ferri particolari, molto spesso frutto dell’inventiva dell’artista.
La spessoratura si articola in due operazioni: nella prima il tornitore riporta sul pezzo gli stessi spessori del disegno aiutandosi con le “lente”, strumenti simili ad un compasso rudimentale, che permettono di calcolare gli spessori esterni ed interni del manufatto e togliere con i vari rampini la pietra in eccesso; nella seconda si rifinisce la superficie esterna dello sbozzo con il rampino quadro. A rifinitura ultimata l’oggetto ha assunto una sagoma ben definita.
Successivamente si passa quindi al vero e proprio lavoro dei pezzi di pregio.
Avviene con strumenti molto personalizzati ed adattati alle singole esigenze. Generalmente non sono strumenti reperibili in commercio, ma sono prodotti dai singoli alabastri utilizzando vecchie lime o comunque pezzi di metallo forgiati secondo la necessità. Sono usualmente chiomati “ferri” e, a loro volta, vengono distinti in: “ferri a mazzuolo”, quando tra essi e lo mano dell’Artista si interpone un mazzuolo o comunque un corpo contundente. Rispondono comunemente al genere delle” subbie”, con forme varie.
“Ferri a forza”, quando la mano operante agisce con movimento di leva, facendo pernio sull’altra mano che naturalmente va incontro o piccole, ma dolorose lesioni.
Onde evitare queste noiose conseguenze, da alcuni il ferro non viene appoggiato sul dito o sulla mano, ma su un pezzo di legno alquanto duro che, ad ogni colpo, risponde con un secco suono di legno urtato. Questo semplice marchingegno viene chiamato “sbacchera”. Rientrano in questo genere le sgorbie, i ferri “a ugnato” (cioè con il terminale a forma di unghia). Sono tutti dotati di un manico di legno che permette una migliore impugnatura e quindi una più facile e precisa esecuzione.
Poi ci sono i “ferri o mano”, quando invece è direttamente la mano che imprime la direzione e la forza. Questi ferri comprendono le “scuffine” con varie forge, le “raspe” , la “gradina” e l’immancabile “lima triangolare” per arrotare. Indispensabile il “pennello” per togliere la fine polvere prodotta con le scuffine.
Utili sono i “punteruoli” e particolari “ferri o fagiolo” e “ferri a sciabola”, “ferri a lancio”.
Per meglio far corrispondere il manufatto al modello si fa ricorso alle “seste”, alle “tente”, uno speciale compasso doppio, e ad un particolare tipo di pantografo o punteggiatore chiamato comunemente “croce”.
Per le parti che devono essere traforate si adoperano trapani a mano, quali la “menarola” e il trapano “a violino”. Alla fine degli anni Sessanta entrarono in uso le frese a disco e il cosiddetto “flessibile”, derivato dal meccanismo del trapano per dentisti. Terminato questo lavoro, che è il più importante e difficile, si posso alla rifinitura.
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Questo può essere compiuto dall’artista medesimo o da collaboratori particolarmente abili, fidati e pazienti, perché non è raro che durante questa operazione possono essere prodotti danni anche gravi e talora irreparabili. Anche questa fase è caratterizzata dalla fantasia e dall’esperienza dei vari operatori, da soluzioni originali che però, molto spesso, sono divenute patrimonio di tutti. Si assiste, quindi, ad un insieme di operazioni quali la levigatura.
Effettuata in antico con la pelle essiccata di un pesce della famiglia dei pescicani, che veniva pertanto chiomata la “depesciatura”, nome che è rimasto tuttora, anche se adesso viene adoperato lo carta vetrata, la retina di ferro o, addirittura, la spianatrice a disco smerigliato o le smerigliatrici a disco di feltro.
Operazione eseguita con carta imbevuta di acqua.
Passaggio praticato con acqua ed erba appartenente alla famiglia delle felci e localmente chiomato “sprello”, che molto verosimilmente va ravvisato nello felce femmina, botanicamente conosciuto come Asplenium. È usato anche un miscuglio di pece greco, polvere di alabastro e cera, come pure una spazzola rotante su cui viene cosparso con un pennello un impasto di crostacei e conchiglie chiomato “triplo”. Si passo poi alla lucidatura.
Era questa, almeno un tempo, uno mansione prevalentemente esercitata da donne ed effettuata con stracci avvolti intorno alle dita con cui passavano e ripassavano la superficie: tali stracci erano imbevuti di un impasto ottenuto con un insieme di ossa di bue bruciate nel camino e finemente macinate, sapone giallo, zolfo in polvere.
Attualmente viene adoperata la lucidatrice a disco, almeno nei pezzi che morfologicamente lo consentono, avendo però l’accortezza di non oltrepassare i 1400 giri al minuto per evitare la “cottura” dell’alabastro. In questa operazione viene usata una polvere abrasiva molto fine e chiamata “lustro”.
A questo punto l’opera è terminata, ma occorre ravvivarla a “rianimarlo” conferendole una patina che si ottiene scaldando prima moderatamente e con vari metodi il pezzo, passaggio questo molto delicato, in cui occorre fare molta attenzione alla temperatura. Infatti l’alabastro, sotto l’azione della temperatura, tende a cuocersi, andando incontro a quella trasformazione definita “ingessimento” e perdendo così la sua trasparenza.
Dopo il riscaldamento viene sottoposto ad una spalmatura con un impasto alla cui base vi è una sostanza chiamata sparmaceto.
Questo termine è una storpiatura di “spermaceti”, sostanza oleosa che si ritrova in alcune cavità delle grosse teste di alcuni cetacei. L’operazione cui da luogo si chiama comunemente sparmacetatura. L’impasto è un ormai secolare composto contenente olio di vasellina, grasso di balena, cera vergine ed altri eventuali ingredienti secondo la fantasia di ogni lavorante. Tale procedura viene ripetuta varie volte e, se la pasta non è stata composta nella maniera giusta oppure se è stata spalmata in modo erroneo, si formano sulla superficie delle zone opache che ricordano le tracce lasciate dalle lumache nel loro incedere e che pertanto sono definite “allumacature”.
L’ultima operazione è la lustratura, ottenuta con panni di cotone. Negli anni più recenti alcuni di questi passaggi sono stati sostituiti con la “Iustratura a poliestere”, per fortuna limitata ai manufatti di scarso o inesistente pregio artistico e di solo interesse commerciale. Nessuno dei pezzi pregiati che attualmente possiamo ammirare ha subito l’affronto di metodiche indubbiamente moderne e industrialmente avanzate, ma altresì altamente offensive nei riguardi delle opere cui sottraggono quell’importante valore aggiunto che solo la mano dell’Uomo e dell’Artista sa conferire. Viene da pensare che questi affronti non sono stati perpetrati non solo, perché in epoche passate non esistevano le attuali metodiche, ma anche e soprattutto, perché la visione di tali opere suggerisce sensazioni di ammirazione ed evoca vibrazioni che impongono il massimo rispetto.