L’alabastro nei Secoli

La lavorazione dell’alabastro risale ad epoche antichissime. Purtroppo la fragilità del materiale, la sua facile degenerazione sotto l’influenza degli agenti atmosferici e le innumerevoli devastazioni subite da tutta l’Etruria nel corso di lunghi secoli non hanno consentito di farci pervenire numerose testimonianze di questa antichissima lavorazione.


ALABASTRO ANTICO

AI momento i più antichi reperti conosciuti sono una patera e un lacrimatoio rintracciati in uno tomba riportabile al V sec. a.C venuta alla luce nel luglio 1878. I reperti sono ora conservati al Museo Archeologico di Firenze e possessori di caratteristiche che inducono ad ipotizzare di essere stati confezionati con pietra attribuibile al territorio volterrano. Più consistente è invece lo quantità di urne cinerarie etrusche o noi giunte e conservate in massima parte al Museo Etrusco di Volterra, anche se alcuni esemplari si possono trovare in altri importanti musei, quali il Louvre, il British Museum, il Museo Vaticano e altre strutture a Firenze. Le urne in alabastro erano una peculiarità volterrana. Sono tutte riferibili dal III al I secolo a.C.

Con la decadenza e la fine del potere e della civiltà etrusca e con l’avvento del cristianesimo vennero meno le motivazioni filosofico-religiose necessarie per la prosecuzione della fabbricazione delle urne, che venne a cessare. È pensabile che questa cessazione sia avvenuta per lisi, non in maniera rapida, come pure è ipotizzabile che, per qualche tempo, la pietra sia stata utilizzata per altri usi non strettamente sacri: purtroppo non ci sono giunte testimonianze.

Questa assenza di testimonianze copre il lunghissimo periodo che scavalca la fine dell’impero romano, le dominazioni barbariche, tutto il medioevo.


ALABASTRO MODERNO

La prima notizia sicura, attualmente conosciuta, sulla ripresa della lavorazione di alabastro risale al 16 luglio 1521, in una lettera scritta da Baldassarre Castiglione al Marchese di Mantova in cui si dice “non tacerò ancor questa nova che da Napoli è stato portato al Papa un organo di alabastro, il più bello et il migliore che mai si sia visto né udito”. E che l’alabastro in quei tempi servisse per confezionare i tasti e le canne per gli organi da chiesa è confermato anche dal Giovannelli nella sua Cronistoria, in cui alla pagina 59 scrive:

“più oltre scorgesi Lescaia, contrada donde si cavano diverse spezie di alabastro vetrino. Altro ritrovasi sopra lo terra del quale, cotto, se ne cava gesso. Del primo se ne fanno eccellenti lavori, si come gli artificiosi organi d’alabastro già fotti da un eccellente artefice napoletano per presentarli a Papa Leone Decimo, nobile fiorentino. Essendo lui morto (non essenda perfetta l’opera) furono presentati a Federigo Gonzaga, prima duca di Mantova. Invero fu opera meravigliosa da annoverare fra le rare e meravigliose opere che si ritrovano. E sonavano in tal maniera che rapivano l’alma e i cuori degli augusti auditori: imperocché erano tutte le canne e i tosti d’alabastro”.

Anche la Enciclopedia Treccani alla pagina 523 del volume XXV, parlando delle canne per organo recita:

“la forma delle canne sarà limitato alle canne aperte cilindriche, mentre il materiale per lo suo costruzione potrà variare dal metallo al legno e perfino dall’alabastro al cartone”.

Altra notizia sicura risale al 13 maggio 1549, giorno in cui lo scultore volterrano Bartolomeo Rossetti risultò creditore dal fiorentino Niccolò Lisci della somma di lire quattro per aver fotto due candelieri d’alabastro dorati. Lo famiglia Rossetti, oltre a Bartolomeo, era composta dal padre Francesco, uno scultore di notevole valore, e dal fratello Giovan Paolo, pittore di notevole spessore e di cui si possono ancora ammirare opere nella Pinacoteca volterrana.

Alcuni anni dopo, intorno al 1570, risulta anche che si recò o Volterra Francesco de’ Medici cui fu presentato “un vaso di alabastro lavorato al tornio da Francesco Rossetti di detta città, nella sua ultima vecchiaia, il quale comparve, per la sua novità, così raro e bello che il Granduca volle acquistarlo da Bartolomeo, figlio dell’artefice, e lo mondò in regolo al Duca di Baviera”. Questa notizia ci viene tramandata dal Giachi e la novità cui si riferisce è il fatto tecnico di essere “lavorato al tornio”, innovazione operativa importante e rivoluzionaria che, sempre a detta del Giachi, è entrato in uso nei primi anni del 1500.

Molto verosimilmente alla bravura e di conseguente alone di influenza della famiglia Rossetti dovrà essere riconosciuto il merito di aver doto impulso alla rinascente attività alabastrina, che già in questa epoca ha raggiunto una raffinatezza di oggetti e di esecuzione con prerogative esclusive e tipiche dell’Arte. A tal punto che Fiumi riferisce che nel 1565 gli alabastrai, ormai organizzati in Corporazione, entrano a far parte dell’Arte della Pietra e del Legname, di cui patrono e protettore è S. Luca, che viene celebrato il 18 ottobre. Questa data per secoli ha rappresentato per tutti gli artieri dell’alabastro motivo di festeggiamenti, culminanti in solenni festini e proporzionali libagioni.

Risulta che nel 1567 l’artista volterrano Leonardo di Pellegrino Ricciarelli compose un tabernacolo di alabastro che fu poi consacrato il 25 novembre 1568 da Antonio Altoviti, vescovo di Firenze.

Il 21 dicembre 1574 l’ingresso in Cattedrale di Volterra del nuovo vescovo Guido Serguidi fu onorato dall’offerta di un vaso di alabastro finemente lavorato, con incastonate due altrettanto fini saliere di argento, dono del Collegio dei Canonici volterrani.

Nel 1575 il famoso predicatore Andrea Ghetti, montecatinese, fece costruire un meraviglioso tabernacolo di alabastro che si reggeva sopra una palla ed era contornato da splendide figurine e pietre naturali di vari colori, posto nella chiesa di Sant’Agostino. Autore di questa opera fu il volterrano Cammillo Spenditori che ebbe problemi per la valutazione del prezzo da riscuotere, si fece allora ricorso all’arbitrato di Bartolomeo Rossetti, che stabilì la cifra di 198 piastre. Questo tabernacolo era talmente bello che mastro Egidio di Massa di Carrara, gran letterato agostiniano e teologo del Concilio di Trento, volle arricchire con “un paio di candelieri di alabastro grandi, cosa molto vaga da vedere”.

Nel 1578 Cosimo Spenditori, fratello di Cammillo, compose un grande ciborio per l’altare maggiore del monastero di S. Andrea.

L’arte alabastrina stava affermando la proprio immagine e lo propria consistenza nel 1580 e Giovanni Rondinelli, Capitano della città, nella “Descrizione dell’antica e nobile città di Volterra” presentata al granduca Francesco, recita “quanto agli alabastri si ha grandissima quantità et in più luoghi”.

E negli anni successivi questa tendenza era giunta a tal punto che il Giovannelli nel 1613, nel tessere le lodi di Volterra, lo descrive il luogo

“dove si produce il bello e nobile marmo nominato alabastro, con il quale si fanno con grand’artifizio da eccellenti Maestri opere meravigliose e stupende come statue, imperatori, santi e tutto quello che si sa desiderare da intelletto humano”.

E sempre nello stesso documento elencò una serie di opere in alabastro che si trovavano a quel tempo nelle chiese di S. Agostino e S. Michele. Purtroppo di tutte le opere sinora elencate è rimasto il solo ricordo, essendo tutte andate perdute.

Risale al 1643 uno degli ultimi documenti conosciuti in cui compaiono elogi per alcune figure in alabastro ritraenti lo Temperanza, lo Giustizia, lo Prudenza, lo Fortezza, lo Fama ed Atlante inviate a Firenze al letterato Raffaello Stoccoli.

Dopo questa data ha inizio un triste e lungo periodo di offuscamento attorno all’arte alabastrina, offuscamento dovuto od alcuni fattori a noi sconosciuti, ma molto probabilmente imputabile anche ad una serie di carestie che impoverirono varie generazioni e alla peste che, partita da Napoli nei primi decenni del 1600, si diffuse ubiquitariamente conducendo alla morte oltre il trenta per cento degli abitanti di tutta l’Europa.

Evidentemente le non floride condizioni economiche di quegli anni non consentivano grande spazio alla commercializzazione di manufatti che costituivano un genere di non essenziale e primaria necessità e dai costi non indifferenti

Inoltre è facile ipotizzare che con la peste siano scomparsi molti dei migliori lavoranti, compresi alcuni Maestri, non rimpiazzati dalle generazioni successive, che non trovavano interesse all’arte alabastrina, perché questa non era più remunerativa in proporzione all’impegno che richiedeva.

Non possediamo molte notizie ulteriori di questo lungo buio e, anche se la lavorazione dell’alabastro continuò ancora, fu rivolta quasi esclusivamente a prodotti di basso profilo e di limitata gamma e da parte di pochi addetti, come si deduce da alcuni documenti, come quello del 1768, quando il Targioni-Tozzetti nei suoi “Viaggi in Toscana” ci tramanda che:

“in oggi sono ridotti a pochi i lavoranti di alabastri di Volterra, che si chiamano ‘marrnai’ e, tra essi, era il più esperto nel 1742 il Signor Sanfinocchi, il quale fa lavori finissimi e per lo più scatole da tabacco e margheritine”.

In pratica, salvo qualche rarissima eccezione, la lavorazione era incentrata quasi esclusivamente sulla produzione delle “avemarie” o “anime”. Queste erano palline di alabastro confezionate in dodici grandezze diverse, non sempre completamente rotondeggianti, di vari colori e che venivano vendute a blocchi costituiti ognuno da mille esemplari, poi incastonate per comporre rosari, collane, pendagli. Venivano prevalentemente prodotte dalle donne e la produzione annua raggiungeva dodicimila migliaia, che erano inviate maggiormente a Roma, dove si procedeva al loro incastonamento, mancando a Volterra artigiani in grado di completare il lavoro. Anche la produzione delle “avemarie” era influenzata dalla decadenza delle maestranze volterrane. Molti escavatori di alabastro, infatti, non esitavano a vendere la loro pietra a Firenze e Roma, favorendo quindi la concorrenza non solo nella produzione delle “anime”, ma anche nella scultura di opere di maggior pregio, per cui le poche opere di valore che i volterrani facevano dovevano essere vendute fuori del Granducato e prendevano altre strade tramite il porto di Livorno. Inoltre la produzione delle “anime” fuori di Volterra raggiungeva una rifinitura “a scaramazzo” (non perfettamente rotonda, ma ovoidale}, che conferiva loro un maggior pregio e che i volterrani non erano capaci di fare.

La principale causa del decadimento dell’arte alabastrina, però, fu costituita dall’infimo livello degli addetti ai lavori, che fecero perdere credito all’immagine creata dai loro predecessori.

Tanto che una Commissione, istituita appositamente per ricercare le cause e i rimedi della crisi, dichiarava nel 1768, tra le altre osservazioni, che “è purtroppo manifesto che i lavoranti di alabastri mancano quasi tutti di disegno” e che questi potrebbero grandemente trarre vantaggio “quando si tenesse i questa città un pubblico maestro di disegno e scultura”. Affrontavano poi, molto cornpanilisticamente, anche il lato commerciale, invitando i proprietari delle cave di alabastro della migliore qualità a vendere la loro pietra non fuori di Volterra, ma ai lavoranti locali, i quali, pur in carenza di abilità operativa, avrebbero potuto trovare più facile smercio in virtù dello bellezza delle pietre adoperate.

Non venne però preso alcun provvedimento, per cui lo decadenza continuò o tal punto che, nel 1786, il Giachi scrive che la manifattura impiegava solamente “più di quaranta artefici”.

Anche la produzione delle “anime” iniziò il declino, subendo una violenta concorrenza da parte di artigiani romani che lavoravano in proprio la pietra che continuava a venir loro venduto da commercianti volterrani, in verità non molto perspicaci. Rimase comunque l’uso di chiamare le “anime” con il termine “le perle volterrane” e questa denominazione è perdurata a Roma fino alla prima guerra mondiale.


ALABASTRO CONTEMPORANEO

In un contesto pieno di fermenti non certo incoraggianti, nel 1791 il giovane volterrano Marcello Inghirami Fei destinò un suo notevole patrimonio al rinnovamento dell’arte alabastrina. Fondò un’Accademia costituito da volenti insegnanti provenienti dalla Francia, da Firenze, Roma, Torino stipendiando lautamente oltre cento lavoranti. Organizzò anche, in termini avveniristici, la rete di commercializzazione, proiettandosi addirittura oltre gli stati italiani. Coniò un suo marchio di fabbrica, un “Iogo”:

F(fabbrica) M(marcello) I(inghirami) F(fei) V(Volterra)

Ma i tempi non erano maturi per un simile disegno e quell’enorme turbine sociopolitico costituito dallo rivoluzione francese non concedeva ancora spazio a certe innovazioni e i continui conflitti bellici portavano con loro le migliori gioventù d’Europa, causando, dopo iniziali entusiasmi, lutti e dolori.

Nel 1799 la nuovo industria fu costretta a chiudere, non solo per motivi economico-commerciali, ma anche per l’intrecciarsi di conflitti di ordine politico. Era, infatti, l’lnghirami Fei fautore della corrente legata di Granduca di Toscana contro i seguaci della montante schiera rivoluzionaria, la quale, dopo un’iniziale debolezza, ebbe il sopravvento ed il Nostro fu costretto addirittura all’esilio.

Ma ormai un seme era stato gettato e, appena lo situazione generale tese o colmarsi, cominciarono a sorgere localmente nuove attività, lo maggioranza delle quali sotto l’impulso di artisti e lavoranti che avevano fatto parte dello Fabbrica Inghirami. La produzione aumentò di qualità e notevoli divennero le quantità di oggetti prodotti, in grado di saturare le richieste del mercato interno. Così, intorno al 1820, sorsero nuove figure nell’organizzazione dell’arte alabastrina i cosiddetti “viaggiatori dell’alabastro”. Questi erano operatori di notevole intraprendenza e apertura mentale che, con grande ardire, considerando i tempi in cui agivano, caricavano sulle navi dell’epoca casse e casse di ottimi lavori e si avventuravano in tutte le terre del globo, anche le più lontane e sconosciute. La loro attività indusse un enorme aumento delle vendite, e quindi della produzione, sia degli oggetti di valido contenuto artistico che di quelli di livello più dozzinale, a tal punto che negli anni che vanno dal 1850 al 1870 Volterra ho conosciuto l’apice dello produzione alabastrina.

Erano anni quelli in cui la richiesta di manufatti era spesso superiore alla produzione, anche per una difficoltà nel reperimento della materia prima che cominciava a scarseggiare. A tal punto che, il 2 aprile 1865, veniva data notizia “Di una nuova industria volterrana” che consisteva nell’utilizzo di una pietra arenaria proveniente in abbondanza da cave vicine o Volterra, in località Scornello, e conosciuta come Pietra di Zambra. In questo relazione venivano forniti incoraggianti elementi sulla facile lavorabilità della pietra e soprattutto sulla sua consistenza e resistenza agli agenti atmosferici. Il 12 maggio 1865 a Firenze, nel Giardino d’Orticultura, veniva esposta una ricca serie di oggetti prodotti con detta pietra. Purtroppo tutte le lodevoli caratteristiche asserite nella relazione non corrisposero alla realtà, per cui, dopo due anni, lo fabbricazione cessò, vanificando le attese e le speranze che molti volterrani avevano riposto in

“questa nuova lavorazione dalla quale in molta parte potrebbe dipendere la futura ricchezza economica della operosa Volterra”

come aveva invece preconizzato il Finocchietti.

Nel 1873, dopo logoranti conflitti bellici europei, ebbe inizio una crisi economico-sociale che coinvolse anche la lavorazione dell’alabastro in maniera molto pesante, che perdurò fino all’inizio del Novecento, quando si riaprirono i mercati internazionali, anche sotto lo spinta dei nuovi gusti dell’arte liberty, cui Volterra prestò subito attenzione, con ottimi risultati. Una nuova crisi attanagliò tutta l’Europa con l’avvento della grande guerra e anche l’alabastro non fu escluso.

Siamo nel 1917 e, per stimolare le vendite, uno dei maggiori laboratori del momento, che produceva opere in alabastro colorato, giunse a variare il nome della materia prima chiamandola “velatrite”, in omaggio al nome etrusco della città che era stato appunto Velathri.

Passata lo bufera bellica fu ripresa lo produzione con grande slancio e ancora una volta furono i “viaggiatori dell’alabastro” a diffondere nel mondo lo produzione alabastrina. Sono stati attivi fino alla vigilia della seconda guerra mondiale e a loro si deve se l’arte alabastrina è stata diffusa sotto tutti i cieli e presso tutte le civiltà. Logicamente tutto questo ha prodotto una disseminazione di notevoli capolavori, molti dei quali probabilmente andati distrutti, come pure sono difficilmente rintracciabili quelli sopravvissuti.

Una raccolta particolarmente ricca per numero e qualità di elaborati, raccolta compiuta in lunghi anni di ricerca, era stata lo stimolo per lo creazione di uno specifico museo inaugurato il 26 maggio 2001 con il nome di “Museo storico dell’Alabastro”, unico nel suo genere per la sua peculiarità. Difficoltà gestionali hanno però costretto lo cessazione dell’attività nel 2005. Con un atto munifico e di grande contenuto culturale la Provincia di Pisa ha evitato una dispersione ed una parcellizzazione provvedendo all’acquisto della maggior parte delle medesime opere.

Museo Storico dell’Alabastro

Museo Storico dell’Alabastro

Pertanto ne deriva che gli esemplari attualmente conosciuti e messi a disposizione in varie mostre meritano particolare attenzione. E questo a maggior ragione se si tiene presente che, dai primi anni Ottanta, è diminuita la produzione di lavori statuari o di cosiddetto “ornato”. I vecchi maestri non sono stati numericamente rimpiazzati dai giovani e, nonostante numerose, importanti, entusiastiche e lodevoli iniziative promosse da Amministrazioni, Istituzioni e Associazioni, gli scopi non sono stati raggiunti.

Occorre inoltre tenere presente che, dalla fine degli stessi anni Ottanta, è iniziato un altro periodo di crisi che, come abbiamo avuto occasione di vedere nella storia sinora esposta, ciclicamente caratterizza e assale l’arte alabastrina. La diminuita richiesta delle opere di maggior pregio ha costituito un rallentamento nella loro esecuzione disincentivando, scoraggiando e anche frustrando artisti indubbiamente capaci di alte espressioni.

© Carlo Cambi Editore, PIERO PAZZAGLI
L’Arte Alabastrina, Cap. “L’Alabastro nei secoli”
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